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Dalla penna di Pan Jun esce una commedia sfolgorante al vetriolo.
Negli ultimi trent’anni la Cina ha conosciuto cambiamenti così repentini da spiazzare i Cinesi stessi.
Può capitare che un quarantenne nato in campagna, novello Marcovaldo di calviniana memoria, inurbàtosi da anni nella capitale per cercare un lavoro da impiegato, si metta a scartabellare nella memoria,
e faccia fatica a confrontare le due polaroid mentali, quella dei suoi anni campagnoli, dove si faceva la fame ma c’era la solidarietà delle rughe delle mani del vicino, e quella del caos, della crudeltà, dell’anonimato della città.
E possa dedurne di vivere in due universi completamente diversi, o peggio, in una versione distopica del proprio futuro, da cui fuggirebbe volentieri.
È dunque assai facile quindi per un quarantenne pechinese di oggi scivolare in un clima di surrealtà, o credere che tutto quanto ti circondi sia un sogno – o un incubo.
La situazione non è poi così distante dalla sensibilità degli italiani: ricorda un po’ i cambiamenti cui fu sottoposta Milano negli anni Sessanta – solo, bisogna immaginarsi i problemi derivanti dalla metamorfosi della via Gluck, alimentati a dismisura, e più duraturi.
Una donna ingenua si innamora dell’uomo sbagliato.
Entrambi escono da un divorzio distruggente.
Lui, non credendo più nella durevolezza dell’amore,
per non farsi più troppo male come in passato, le propone un contratto che ricorda la relazione fra Faust e Mefistofele.
Il contratto sembra dettato da una freddezza assoluta, ma in realtà scoperchia le ipocrisie delle convinzioni affettive del nostro vivere contemporaneo.
La nostra coppia protagonista è assediata dalla ex di lui e da uno spasimante ossessivo-compulsivo per lei. Il tutto è condito da una collega sessuomane che si sente in dovere di dispensare imbarazzanti consigli erotici per pepare il rapporto di coppia.
I personaggi rimangono alla disperata ricerca dell’amore, di un centro, per non sbarellare definitivamente, e non essere strappati via dal vento in questa muraglia di grattacieli.
Cosa c’è di più struggente dell’ammissione di essere fragili?
Per gli attori è una prova pirotecnica, per dare luce alla folle surrealtà che giace – tesissima – sotto il tappeto della tagliente autoironia di Pan Jun, un misto abbacinante tra Brecht e Feydeau.